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01/02/2013 |
CINEMA: "WARM BODIES" |
Data: |
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Rè uno zombie. Si chiama solo con la prima lettera di quello che era il suo nome perchè non riesce più a ricordarlo, la vita da morto vivente gli ha gradualmente prosciugato la memoria e tolto l’entusiasmo verso qualsiasi cosa che non siano i bisogni primari della sua razza: ciondolare e cibarsi dei cervelli dei pochi umani rimasti. In una razzìa di gruppo ai danni di alcuni ragazzi in cerca di medicine, R incontra July e ha un colpo di fulmine, il primo sentimento che prova nella sua vita da zombie. Peccato che July sia non solo viva, ma anche figlia del generale che guida la resistenza contro i morti viventi. Anche un corpo deceduto può provare sentimenti che elevino il suo animo al di sopra della routine di razzìe e gemiti. Con un movimento sentimentale solo nominalmente appartenente alla categoria di Twilight (lì i patemi sentimentali dei vampiri, qui di uno zombie ma le analogie, davvero, finiscono qui), Warm bodies strappa il filone postapocalittico dei morti viventi al cinema d’azione per esplorarne gli sconosciuti anfratti da teen movie sentimentale. Senza muovere un passo dalle regole e dai codici fissati in decenni di cinema dei morti viventi e anzi aggiungendo qualche invenzione (i morti viventi anelano e mangiano cervelli perchè masticandoli vivono i ricordi delle persone cui appartenevano, provando così una parvenza di sentimenti), Jonathan Levine tenta l’impresa impossibile di rendere attraente e romantico il corpo in decomposizione di uno zombie, creatura repellente e inespressiva per statuto. Se il tentativo alla fine appare riuscito solo in parte e non senza diverse forzature, di certo il risultato finale brilla per coerenza e senso del cinema, tanto che anche la voluta ed esibita similitudine con Romeo e Giulietta pare passare in secondo piano. Già nell’omonimo libro di Isaac Marion la vita da morto che cammina era la metafora dell’esistenza anestetizzata dal sentimento di un outsider che cerca di conquistare il posto nel mondo che desidera dentro di sè, e proprio questa dicotomia tra un’interiorità vitale e un corpo morto e inespressivo (riproposta nel film attraverso l’uso di una voce narrante che è anche quella dei pensieri del protagonista) costituisce il segnale più chiaro dell’allegoria con il disagio giovanile. Il punto di contatto ultimo che ben si sposa con tutta una messa in scena che rimanda al cinema adolescenziale moderno. Senza esagerare in nessuna direzione (nè nell’analisi psicologica, nè nel trattato sociologico) e con la ferma intenzione di non lasciare porte aperte a possibili sequel o saghe, Warm bodies fa un piccolo racconto dalle ambizioni audaci, non fortissimo sul fronte del romanticismo (i due amanti Teresa Palmer e Nicholas Hoult non hanno alcuna alchimia anche per ragioni di script) ma estremamente rispettoso della figura dello zombie, che se da una parte ne nega la dimensione di massa, dall’altra ne conferma la natura di rappresentazione della parte peggiore della società in maniera nuova. Come nei migliori film del genere infatti anche uscendo da Warm bodies il pensiero è che probabilmente siamo già morti viventi, anche senza un’epidemia apocalittica.
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