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08/01/2013 |
CINEMA: "QUELLO CHE SO SULL'AMORE" |
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George Dryer è un ex calciatore costretto da un infortunio a lasciare prematuramente il campo e la carriera. Dopo aver confezionato donne e trofei, dopo un figlio e il naufragio del proprio matrimonio, George prova a inventarsi una nuova vita, proponendosi alle televisioni come cronista sportivo. Tra un tentativo e l'altro, si trasferisce a pochi metri dalla casa di Lewis, il figlio di pochi anni che vive con la madre e il suo nuovo compagno. Deciso a rigare dritto e a riguadagnare la fiducia e l'affetto del suo bambino, George accetta di allenare la squadra di Lewis. Scapolo e aitante, il nuovo mister non passa inosservato, cadendo molto presto e troppo spesso vittima delle avances insistite e insistenti di mamme divorziate o in odore di divorzio. Partita dopo partita George recupera il cuore del figlio, provando a segnare il gol più importante della vita: riconquistare la stima e l'amore della sua ex moglie. Il sottotesto nei film di Gabriele Muccino è quasi sempre una storia produttiva, dove un attore o un produttore propongono al regista nazionale un progetto internazionale. Dopo Will Smith, accanito ammiratore del regista, con cui ha trovato la felicità e salvato sette anime, è la volta del produttore imporre plot, cast e happy end. Guardando Quello che so sull'amore la sensazione è l'accettazione del sistema. Gabriele Muccino ha ceduto arte e armi. Si è garantito il futuro e si mantiene stretto il presente hollywoodiano ma a quale prezzo? Non è facile imporsi e imporre la propria autorialità in un contesto fortemente standardizzato, sia narrativamente che formalmente, ma creare un po' di disagio, erodere qualche certezza spettatoriale, concepire trabocchetti e inattesi snodi diegetici forse è possibile. Il rammarico espresso nelle dichiarazioni del regista romano lascia pensare a ragione che il sogno di cinema di Muccino non coincida con quello hollywoodiano e allora perché limitare la rappresentazione dell'inquietudine a vantaggio di una normalizzazione rassicurante? Perché ricomporre la conflittualità del protagonista dentro un giardino e un finale lieto? Perché accontentare i committenti e scontentare le proprie inclinazioni? In attesa di una filmografia che risponda in un senso o nell'altro a questi interrogativi, è più utile concentrarsi sul prodotto fatto e finito. Commedia straniera, Quello che so sull'amore è una centrifuga di situazioni smaltate, una semplificazione estrema della formula romantica che si regge grandemente sull'interpretazione e il physique du rôle di Gerard Butler, padre in affanno e indeciso se dare un calcio alla vita o al pallone. Precipitato in una narrativa senza asperità, gli fa corona una trionfante esposizione divistica che sfrutta l'appeal ritoccato di Uma Thurman e Catherine Zeta-Jones, risolvendo i rispettivi personaggi in un paio di rapidi passaggi. Ma non c'è performance attoriale o misura scenografica che possa sopraffare o solo ridurre la centralità di Butler, abbigliato e acconciato come un Muccino 'minore'. E la prossimità somatica dell'attore scozzese con Silvio Muccino è la traccia in cui si rintraccia l'anima e la pancia di tutti i personaggi 'farfuglianti' del regista, portatori di un nomadismo sentimentale e di un sistema instabile di relazioni affettive. Racconta in fondo la stessa storia Gabriele Muccino, quella di un uomo posto di fronte a una scelta e incapace di decidere tra quello che aveva e quello che ha. E poi, dopo aver oscillato per un'ora e quaranta, minuto più minuto meno, tra fuga e ritorno, il protagonista ritrova l'equilibrio e recupera la relazione in crisi o si stabilisce in un nuovo rapporto. Meccanismo vecchio e collaudato che, neanche a dirlo, fonda la commedia hollywoodiana classica. Che in questa occasione preferisce la ricongiunzione, preservando la coppia e il percorso distributivo del film.
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